Educare al sociale? Ma che cosa è stato? Un corso di formazione, un ciclo di incontri formativi, un convegno pedagogico?
“L’educazione è dire Educare al sociale” ha dichiarato a un certo punto il prof. Rati, volendo con ciò principiare un discorso sull’importanza delle parole, delle forme, delle parole intese come forme, che formano o che sformano. Ma sarà mica un capriccio, un vezzo, una moda temporanea quella di contestare, osteggiare, raggirare la forma? Vi sarà mica bisogno di altre forme per superare quelle attuali impregnanti contaminanti deformanti?
La forma cerca la sostanza e la sostanza cerca la forma. Così, quando Dioniso giunse in Grecia dall’Oriente, con la sua schiera di angelici barbuti e demoniche ninfe inebriate, gli dèi avvertirono in lui lo sconquassamento della ordinata armonica esistenza divina greca, e inviarono Apollo a fronteggiarlo. Ma Dioniso era troppo travolgente. Intorno a lui turbinavano le forze della natura, gli istinti primaverili che travolgono gli uomini nei gorghi della passione e dell’agire impulsivo e spontaneo, in cui ogni vincolo-catena sociale è spezzata e il disordine regna liberamente in luogo dell’ordine. Il dio dell’ebbrezza era troppo potente per un affronto frontale. Così Apollo dovette trovare un compromesso. Il dio della luce, dell’accecante sole e della bella forma, gli lanciò addosso una rete invisibile, così che Dioniso ne risultò imprigionato senza avvedersene, sostanza intemperante nella forma moderante di Apollo.
Dalla risoluzione di questo conflitto nasce l’arte, come dalla razionalità socratica nasce la scienza. Almeno a detta di Nietzsche! L’azione più pura e vera è quella che germina spontaneamente, quella “incosciente”, quella che rende simile il folle e il fanciullo. Il tempio della liberazione è quello che costruisce il fanciullo intorno a sé, nella sua incoscienza, nel suo non sapere delle conseguenze, nel suo vigile e dirompente desiderio di conoscere, provare, sperimentare, tracimare. La forma cerca la sostanza e viceversa, l’idea cerca la materia e viceversa. Il fanciullo ha in germe l’uomo nella sostanza, l’uomo conserva il fanciullo nella forma. Un gioco di parole. Non diamogli una forma-significato definitiva!
L’adulto cerca il fanciullo, il fanciullo cerca l’adulto. Si abbisognano reciprocamente, l’uno specchio deformante e ricostituente dell’altro. Tutto sta in ciò: conciliare la forma con la sostanza, l’idea con l’azione, il figlio con il padre, il singolo con il mondo; anche conflittualmente, meglio non violentemente…appurato!
Le parole sono veicoli di passioni, meglio se passioni sincere, spontanee, immediate. Poi la forma razionale apollineo-socratica ci fornirà l’illusione, forgerà il velo di Maya, evidentemente necessario in certa misura, perché originario, condizione filogenetica di ogni ontogenesi.
Le parole che non conosciamo forse ci spaventano? Sono come il sole agli inizi dell’umanità –se mai un inizio c’è stato? Ma proprio tale spavento stupore meraviglia produce il senso della ricerca, la ricerca di un senso. Ed è il razionale, dopo la credenza, la superstizione, ed è la scienza, che conserva in sé i dogmi e i misteri mitico-religiosi. Dialettica epistemologica, se vogliamo, da un punto di vista a posteriori, poietica, dal punto di vista della libertà, del possibile libero esprimersi, nonostante la forma.
Dunque vivere, esistere, coesistere sarà pure fare poesia, cantare, urlare, creare, e poi riorganizzare, mettere in ordine, rifare. Come il dio di Eraclito, esistere è fare e disfare il proprio castello di sabbia in riva al mare, forgiare un’idea e una realtà ad essa corrispondente, che poi devono svanire conservandosi in una nuova idea e in una nuova realtà. È l’immagine del tempo in divenire dell’esistenza. Ciò che è fatto (è stato) si disfa in ciò che è da farsi (sarà) e che in ogni momento si fa (è). Ieri, oggi, domani, in questo luogo presente, prodotto di quello passato, condizione di quello avvenire.
Educare al sociale dunque?
Educare al sociale è ciò: una formula, una forma, un gesto poietico-intellettuale che cerca la pratica, mira all’esperienza, non alla pragmatica, all’essere pratico-inerte meccanico, abitudinario, automatico, ma al divenire dinamico-dialettico, all’azione strutturale-strutturante, dove la forma, il ruolo, lo schema operano quel poco che basta per definire identità, differenze, ruoli, compiti, agire comuni. Educare al sociale è rapportare tutto il nostro mondo interiore ed esteriore attuale a ciò che ha da venire, all’indefinito divenire avvenire, a ciò che ci è posto dinanzi come uno scopo, una meta, un obiettivo, il cui conseguimento coincide con una riorganizzazione, ridefinizione, rielaborazione di una nuova azione. Educare al sociale in questo senso è tentare di rendere intelligibile la vita, l’esistenza mia e degli altri come progetto, i possibili del nostro fare e confare in prospettiva futura. Partendo dalle condizioni presenti, il singolo proietta il suo essere, che è divenire e fare, verso l’avvenire, elabora, immagina, costruisce razionalmente e impulsivamente il suo progetto di vita. Ma questo suo essere progetto-progettante singolare è naturalmente connesso a tutti i progetti-progettanti singolari, l’individuo essendo intricato nelle relazioni-ragnatele sociali sin dalla nascita. L’individuo necessita del gruppo, nella sua relazione con il mondo, con la società, di una mediazione del gruppo, lui stesso essendo mediatore e la sua praxis mediatrice nella società, tra gli altri singoli e gruppi.
Educare al sociale è portare alla luce gli stretti legami che caratterizzano il singolo nel suo rapporto con la società, con il mondo, ma anche con la Storia, quella che lo precede e quella che è da farsi. Ogni singolo aspira alla sua realizzazione nel mondo, in mezzo agli altri, ma questo desiderio non è altro che il desiderio di essere dentro la Storia, di essere protagonista attivo di una storia che muta e cambia perpetuamente, cambia sotto l’azione degli uomini nel loro insieme. La Storia non è quella che si racconta nei libri di storia. Quella semmai è sintesi storiografica, conoscenza tecnica, formativa in senso largo, conoscenza orientante, dizionaresca, se possiamo ancora, e possiamo, giocare con la parole. La Storia è ciò che i singoli fanno di sé, nel mondo, inconsapevolmente o consapevolmente agenti con gli altri. Educare al sociale è concepire la prassi del singolo come prassi di gruppo aspirante a un ruolo attivo nella Storia, partendo da condizioni date e costruendo quelle future.
Dunque una forma-formula che orienta i singoli e i gruppi nel cambiamento storico necessario, che cerca l’idea con la prassi e la prassi con l’idea nella prospettiva di un progetto lungimirante. Educare al sociale è dunque, così, una promessa. Una promessa che si deve rispettare e mantenere.
È per rispettare e mantenere questa promessa che ringrazio tutti quelli che hanno partecipato, in modo formale e informale, quelli che hanno creduto che in tale formula si nascondesse di più di una semplice forma, quelli cha hanno vissuto l’esperienza del tracimare dalla forma nella sostanza delle cose, confrontandosi ciascuno sulla base della propria esperienza, con le proprie conoscenze e i propri dubbi, i propri pregiudizi e i propri complessi, il proprio egoismo e la propria socialità, i timidi con gli egocentrici, i taciturni con i chiacchieroni, in tale con-fusione riflessiva e consapevole che ha lasciato il segno e il seme del possibile in tutti.
“L’educazione è dire Educare al sociale” ha dichiarato a un certo punto il prof. Rati, volendo con ciò principiare un discorso sull’importanza delle parole, delle forme, delle parole intese come forme, che formano o che sformano. Ma sarà mica un capriccio, un vezzo, una moda temporanea quella di contestare, osteggiare, raggirare la forma? Vi sarà mica bisogno di altre forme per superare quelle attuali impregnanti contaminanti deformanti?
La forma cerca la sostanza e la sostanza cerca la forma. Così, quando Dioniso giunse in Grecia dall’Oriente, con la sua schiera di angelici barbuti e demoniche ninfe inebriate, gli dèi avvertirono in lui lo sconquassamento della ordinata armonica esistenza divina greca, e inviarono Apollo a fronteggiarlo. Ma Dioniso era troppo travolgente. Intorno a lui turbinavano le forze della natura, gli istinti primaverili che travolgono gli uomini nei gorghi della passione e dell’agire impulsivo e spontaneo, in cui ogni vincolo-catena sociale è spezzata e il disordine regna liberamente in luogo dell’ordine. Il dio dell’ebbrezza era troppo potente per un affronto frontale. Così Apollo dovette trovare un compromesso. Il dio della luce, dell’accecante sole e della bella forma, gli lanciò addosso una rete invisibile, così che Dioniso ne risultò imprigionato senza avvedersene, sostanza intemperante nella forma moderante di Apollo.
Dalla risoluzione di questo conflitto nasce l’arte, come dalla razionalità socratica nasce la scienza. Almeno a detta di Nietzsche! L’azione più pura e vera è quella che germina spontaneamente, quella “incosciente”, quella che rende simile il folle e il fanciullo. Il tempio della liberazione è quello che costruisce il fanciullo intorno a sé, nella sua incoscienza, nel suo non sapere delle conseguenze, nel suo vigile e dirompente desiderio di conoscere, provare, sperimentare, tracimare. La forma cerca la sostanza e viceversa, l’idea cerca la materia e viceversa. Il fanciullo ha in germe l’uomo nella sostanza, l’uomo conserva il fanciullo nella forma. Un gioco di parole. Non diamogli una forma-significato definitiva!
L’adulto cerca il fanciullo, il fanciullo cerca l’adulto. Si abbisognano reciprocamente, l’uno specchio deformante e ricostituente dell’altro. Tutto sta in ciò: conciliare la forma con la sostanza, l’idea con l’azione, il figlio con il padre, il singolo con il mondo; anche conflittualmente, meglio non violentemente…appurato!
Le parole sono veicoli di passioni, meglio se passioni sincere, spontanee, immediate. Poi la forma razionale apollineo-socratica ci fornirà l’illusione, forgerà il velo di Maya, evidentemente necessario in certa misura, perché originario, condizione filogenetica di ogni ontogenesi.
Le parole che non conosciamo forse ci spaventano? Sono come il sole agli inizi dell’umanità –se mai un inizio c’è stato? Ma proprio tale spavento stupore meraviglia produce il senso della ricerca, la ricerca di un senso. Ed è il razionale, dopo la credenza, la superstizione, ed è la scienza, che conserva in sé i dogmi e i misteri mitico-religiosi. Dialettica epistemologica, se vogliamo, da un punto di vista a posteriori, poietica, dal punto di vista della libertà, del possibile libero esprimersi, nonostante la forma.
Dunque vivere, esistere, coesistere sarà pure fare poesia, cantare, urlare, creare, e poi riorganizzare, mettere in ordine, rifare. Come il dio di Eraclito, esistere è fare e disfare il proprio castello di sabbia in riva al mare, forgiare un’idea e una realtà ad essa corrispondente, che poi devono svanire conservandosi in una nuova idea e in una nuova realtà. È l’immagine del tempo in divenire dell’esistenza. Ciò che è fatto (è stato) si disfa in ciò che è da farsi (sarà) e che in ogni momento si fa (è). Ieri, oggi, domani, in questo luogo presente, prodotto di quello passato, condizione di quello avvenire.
Educare al sociale dunque?
Educare al sociale è ciò: una formula, una forma, un gesto poietico-intellettuale che cerca la pratica, mira all’esperienza, non alla pragmatica, all’essere pratico-inerte meccanico, abitudinario, automatico, ma al divenire dinamico-dialettico, all’azione strutturale-strutturante, dove la forma, il ruolo, lo schema operano quel poco che basta per definire identità, differenze, ruoli, compiti, agire comuni. Educare al sociale è rapportare tutto il nostro mondo interiore ed esteriore attuale a ciò che ha da venire, all’indefinito divenire avvenire, a ciò che ci è posto dinanzi come uno scopo, una meta, un obiettivo, il cui conseguimento coincide con una riorganizzazione, ridefinizione, rielaborazione di una nuova azione. Educare al sociale in questo senso è tentare di rendere intelligibile la vita, l’esistenza mia e degli altri come progetto, i possibili del nostro fare e confare in prospettiva futura. Partendo dalle condizioni presenti, il singolo proietta il suo essere, che è divenire e fare, verso l’avvenire, elabora, immagina, costruisce razionalmente e impulsivamente il suo progetto di vita. Ma questo suo essere progetto-progettante singolare è naturalmente connesso a tutti i progetti-progettanti singolari, l’individuo essendo intricato nelle relazioni-ragnatele sociali sin dalla nascita. L’individuo necessita del gruppo, nella sua relazione con il mondo, con la società, di una mediazione del gruppo, lui stesso essendo mediatore e la sua praxis mediatrice nella società, tra gli altri singoli e gruppi.
Educare al sociale è portare alla luce gli stretti legami che caratterizzano il singolo nel suo rapporto con la società, con il mondo, ma anche con la Storia, quella che lo precede e quella che è da farsi. Ogni singolo aspira alla sua realizzazione nel mondo, in mezzo agli altri, ma questo desiderio non è altro che il desiderio di essere dentro la Storia, di essere protagonista attivo di una storia che muta e cambia perpetuamente, cambia sotto l’azione degli uomini nel loro insieme. La Storia non è quella che si racconta nei libri di storia. Quella semmai è sintesi storiografica, conoscenza tecnica, formativa in senso largo, conoscenza orientante, dizionaresca, se possiamo ancora, e possiamo, giocare con la parole. La Storia è ciò che i singoli fanno di sé, nel mondo, inconsapevolmente o consapevolmente agenti con gli altri. Educare al sociale è concepire la prassi del singolo come prassi di gruppo aspirante a un ruolo attivo nella Storia, partendo da condizioni date e costruendo quelle future.
Dunque una forma-formula che orienta i singoli e i gruppi nel cambiamento storico necessario, che cerca l’idea con la prassi e la prassi con l’idea nella prospettiva di un progetto lungimirante. Educare al sociale è dunque, così, una promessa. Una promessa che si deve rispettare e mantenere.
È per rispettare e mantenere questa promessa che ringrazio tutti quelli che hanno partecipato, in modo formale e informale, quelli che hanno creduto che in tale formula si nascondesse di più di una semplice forma, quelli cha hanno vissuto l’esperienza del tracimare dalla forma nella sostanza delle cose, confrontandosi ciascuno sulla base della propria esperienza, con le proprie conoscenze e i propri dubbi, i propri pregiudizi e i propri complessi, il proprio egoismo e la propria socialità, i timidi con gli egocentrici, i taciturni con i chiacchieroni, in tale con-fusione riflessiva e consapevole che ha lasciato il segno e il seme del possibile in tutti.
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